lunedì 25 luglio 2011

COMUNICAZIONE

In questa epoca, piena di tensioni e violenze di ogni tipo, è necessario stimolare la Comunicazione, intesa come dialogo tra persone diverse che vogliono vivere insieme, rimanendo diverse.
La Comunicazione non ci deve rendere uguali, piuttosto deve essere veicolo di Conoscenza delle diversità culturali, sociali, religiose e soprattutto, deve stimolare l’Accoglienza e il Rispetto del diverso.
Accogliere e rispettare le diversità non vuol dire condividerle!
L’altro deve avere il diritto di pensarla diversamente da noi, così come noi dobbiamo avere il diritto di pensarla diversamente dall’altro.

«Non sono d'accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu possa continuare a dirlo»  

Oggi, molte persone danno la vita e spezzano la vita altrui per impedire all’altro di essere diverso!

Per affrontare l’emergenza di una situazione che vede vana ogni speranza di una vita vissuta nella pace, è necessario iniziare dall’individuo.
Non si possono aspettare decisioni politiche risolutive!

Il corpo oggi è oggetto di violenza e massacro:
 l'individuo può ricontattare la sua autentica origine corporea e spirituale.

Il corpo, inteso come insieme di organi ma soprattutto, come emozioni legate al divenire dell’esistenza, si è perso nell' affannosa corsa alla affermazione dell' "io".
La cultura dell’Immagine e gli status symbols a questa legati, hanno reso l’uomo individualista e indifferente alla relazione col prossimo.
È proprio la relazione con l’altro che rende possibile una maggiore consapevolezza di noi stessi come esseri umani, dotati di un corpo senziente e genera un maggior rispetto per la vita di tutti. 

lunedì 18 luglio 2011

Malati di Mente

I malati di mente, i pazzi che dir si voglia, sono un aspetto molto scomodo della nostra realtà di esseri umani. Il rischio che ognuno di noi sarebbe potuto, o potrebbe diventare "pazzo", nel corso della vita, ci spinge a negare il problema, allontanandolo dalla nostra mente, pensando che appartenga sempre ad altri. La realtà è che questo aspetto della vita ci appartiene. Qui ed ora. Negare la dimensione umana ai malati di mente, come avveniva nei manicomi fino alla legge Basaglia e come tuttora avviene quotidianamente, quando i cosiddetti pazzi, vengono trattati meglio da un punto di vista igienico-sanitario, ma continuano a non essere considerati uomini bisognosi di un contatto umano, emotivo, è stata ed è una "difesa psicologica"con cui l'uomo "sano" disumanizza quello "malato", per allontanare da se stesso il pericolo della pazzia.
La pazzia ha un senso, se lo cerchiamo; infatti anche i pazzi sono in grado di dare emozioni e insegnamenti alle anime che desiderano accogliere l'uomo che sta dietro la pazzia. Superando le paure ed entrando in contatto con i malati di mente, possiamo capire che si tratta di uomini come noi, con una sensibilità diversa, ma con i nostri stessi bisogni di considerazione, approvazione, di carezze, affetto, ma anche di una guida autorevole.

Sicuramente i pazzi non possono produrre ciò che la nostra società va rincorrendo affannosamente, l'ottima prestazione fisica ed intellettuale, ma possiedono inalterata, genuina, la parte più bella dell'uomo e cioè la parte del "Bambino". E' la parte più arcaica dell'individuo, ancora legata al linguaggio analogico scevra dalle sovrastrutture dell'uomo "civilizzato", un linguaggio che somiglia al linguaggio onirico.

Mi è capitato di ammirare dei quadri dipinti da malati di mente: non sono altro che "sogni su tela". E' come se dipingessero direttamente ciò che sognano. Uno di questi pittori pazzi, ha detto riguardo ad un suo quadro: "Ho fatto un uomo con la mente!"; noi poi gli facciamo dire che lo ha fatto anche con le mani, ma in realtà lui ha ragione, l'ha dipinto proprio con la mente, le mani sono un' estroflessione del "sogno continuo", che è l'identità del pazzo. Le mani del pazzo infatti, non seguono le regole artistiche per creare il quadro, piuttosto il loro moto onirico, che costituisce la loro identità. Forse vivendo un po' di più la nostra dimensione onirica, potremmo liberarci dalla schiavitù dell'efficienza, dell'immagine, del produrre, per godere della bellezza di forme di vita che hanno un fascino tutto da sognare.  

sabato 16 luglio 2011

FIDUCIA E TRADIMENTO: due realtà che non possono esistere indipendentemente l'una dall'altra

Appena nati, siamo un tutt'uno con nostra madre, tanto da non discriminare il nostro corpo dal suo.
Siamo addirittura tutto il mondo ("delirio di onnipotenza"?).
Gradualmente sentiamo che il nostro corpo è definito e staccato da quello di nostra madre, spinti dall'istinto di autoaffermazione ("morso al seno"), ma soprattutto attraverso le inevitabili separazioni dal corpo di nostra madre.
Le prime separazioni possono essere viste come primi "tradimenti" di nostra madre, che se ne va, piuttosto che soddisfare la nostra grandiosa aspettativa, di tenerci ancorati al suo corpo/mondo.
La fiducia incondizionata è quello che da bambini abbiamo verso nostra madre o verso una figura significativa; è la fiducia che ci fa pretendere che i nostri bisogni siano soddisfatti, senza che noi li manifestiamo in alcun modo.
Questa fiducia deriva dalla idealizzazione, inizialmente fisiologica, che noi operiamo sulla figura di nostra madre, ma che se permane durante le fasi di crescita, può determinare forti disagi nello sviluppo di una personalità autonoma.
I "tradimenti" sono necessari, affinchè ba bambini, illusi da una fiducia incondizionata, passiamo ad una fiducia "adulta", in cui accettiamo il rischio che l'altro, possa tradire le nostre aspettative, visto che si tratta di un individuo diverso, con percezioni e idee diverse dalle nostre.
Il tradimento così inteso, può essere una occasione per maturare nella relazione:
infatti, il tradito e il traditore, possono imparare qualcosa di se stessi e dell'altro, comunicando efficacemente.
Spesso si tradisce l'altro, perchè per troppo tempo si è stati traditori di se stessi.
Se io, per non tradire l'altro, rinuncio ai miei bisogni e desideri, finisco per tradire me stesso. Dunque mi illudo di non essere il traditore, ma in realtà, lo sono comunque!
In una relazione significativa, che può essere quella tra genitori e figli, oppure tra moglie e marito, o anche tra amici intimi, si finisce prima o poi per tradirsi a vicenda, non perchè non si ami più l'altro, piuttosto perchè si è diversi e col passare del tempo, le nostre evoluzioni esistenziali, ci fanno distaccare dalla intesa più o meno perfetta che ci siamo costruiti, all'inizio della relazione.
In ogni relazione, le intese iniziali, vanno rivedute e corrette, perchè col passare del tempo, si cambia.
Una comunicazione efficace ( Vedi pagina )  dei propri propositi, desideri, bisogni, può portare ad una migliore gestione degli inevitabili "tradimenti" che nascono nella relazione.
Qui, siamo davanti al vero problema:
non si comunica all'altro, in modo intimo, genuino, spontaneo, ciò che ci riguarda e si finisce per non tollerare il dolore che viene da un inevitabile "tradimento".

venerdì 15 luglio 2011

Bambino ADHD in classe: punto di vista di un educatore

Occupandomi di un bambino diagnosticato ADHD di nome Marco (nome inventato, di seguito M.) per oltre 4 anni alla Scuola Primaria, ho potuto notare che le difficoltà maggiori le hanno più i genitori dei compagni e gli insegnanti, che i bambini stessi.
I compagni di M. sono stati e sono tuttora molto affettuosi e comprensivi, nonostante possano arrivare ad un limite di sopportazione che sfocia poi nel malcontento evidente!
Ci sono anche molti atteggiamenti accoglienti la “diversità” di M. da parte dei compagni, arrivando a comportamenti finanche accudenti. In queste occasioni è evidente come una “diversità-fragilità” possa indurre sentimenti di affettività genitoriale da parte dei coetanei. Allo stesso modo i bambini possono arrivare ad assumere ruoli normativi, quando stanno accanto a M., aiutandolo a fare i compiti o quando gli danno indicazioni comportamentali.
I bambini sembrano molto creativi nell’inventare modi di stare con chi ha delle difficoltà, sanno superare il fastidio causato dall’esuberanza di un bambino iperattivo, per arrivare a interagire con lui in modo efficace, servendosi anche dell’adulto come mediatore.
In alcuni momenti, tuttavia, ho notato quanto i compagni provochino M. affinché crei scompiglio in classe: dopotutto un certo Freud definì il bambino “perverso polimorfo”, cioè in grado di procurarsi soddisfazione libidica in differenti modi perversi, estendibili a mio avviso, anche alle relazioni sociali con i pari. Attraverso le dinamiche relazionali l’individuo, in questo caso il bambino, può trovare soddisfazione nel provocare una reazione violenta da parte del bambino iperattivo, per le motivazioni più disparate.
Ho potuto vedere, per esempio, bambini che dopo aver provocato M. con un gesto, correvano da me per farsi difendere, mettendosi dietro di me e chiedendomi aiuto con un’espressione ibrida che esprimeva paura, divertimento ed eccitazione.
Spesso ho visto i compagni di M. provocarlo perché si creasse panico in classe:
è una soddisfazione forse “sadica” indurre M. a reagire in modo violento contro i banchi, gli astucci, le insegnanti, i compagni, l’ AEC?
Oppure può essere gratificante per il bambino vincolato ad una condizione di “normalità”, provocare le reazioni aggressive nell’unico bambino che è quasi legittimato ad averne, visto che è un bambino con problemi, che ha la maestra di sostegno e l’AEC? Insomma un modo per vivere l’aggressività proiettandola sull’altro e vedendola agita dall’altro?

A voi la risposta!
 
La gestione efficace del bambino iperattivo in classe e non solo, dipende anche dal comportamento che l’adulto assume. Ho potuto notare diversi comportamenti degli adulti che purtroppo sono stati inefficaci, ad esempio:
1.   Le insegnanti possono mostrare insofferenza per la presenza del bambino iperattivo in classe attraverso atteggiamenti che portano a considerare il bambino come un elemento da tenere il più possibile lontano dai compagni. Per legittimare un tale comportamento si adducono come motivazione, i comportamenti esuberanti dell’iperattivo, che possono essere non solo disturbanti per l’intera classe ma anche pericolosi per l’incolumità degli altri bambini. Tutto ciò provoca un isolamento del bambino ADHD e una svalutazione delle possibili potenzialità da stimolare nel bambino.
2.   I genitori dei compagni dell’iperattivo possono lamentarsi pesantemente della presenza del bambino che spesso fa dispetti, sputa, tira calci, schiaffi, pugni ecc., finanche minacciando di fare denuncia alla Scuola se il loro figlio torna a casa con un graffio o con un livido. Questo comportamento evidenzia una scarsa capacità di mettersi al posto degli altri e provare a comprendere le difficoltà che, dopotutto, avrebbero potuto avere anche i loro figli.
 Esempio di comportamento efficace:
3.   Le insegnanti e i genitori dei compagni del bambino iperattivo possono cercare di comprendere la natura del disturbo, cercando di mettere da parte il desiderio di avere meno rogne possibili e piuttosto di considerare il fatto che un bambino con tali difficoltà può essere occasione per gli altri bambini, di maturare una sensibilità verso la diversità, specialmente se la diversità costituisce motivo di malessere personale e d’isolamento. I bambini cosiddetti “normali” possono essere così aiutati a considerare quello “anormale” come uno di loro, che ha bisogno di comprensione e aiuto. Questi bambini, aiutati da adulti comprensivi, possono concorrere attivamente all’ integrazione del bambino iperattivo, facendo probabilmente la parte più grossa e importante. È da loro infatti che M. ha avuto maggiore motivazione al cambiamento delle proprie modalità comportamentali, non lo sono state le punizioni, né i moniti genitoriali.
Purtroppo devo concludere che molte scuole primarie e non solo, sono poco preparate a interagire efficacemente con bambini ADHD o DSA o aventi altri tipi di disturbi. Non c’è una mentalità volta all’ascolto e alla comprensione delle difficoltà dell’altro, piuttosto si pensa allo svolgimento del programma ministeriale, non si ha tempo per lavorare sulla socializzazione dei bambini all’interno della classe, anche in assenza di bambini “problematici”, figuriamoci in loro presenza!
Mi auguro che in un futuro prossimo ci sia un cambiamento di rotta nelle scuole, volto a considerare maggiormente la necessità che hanno i bambini di vivere la scuola come un’agenzia educativa e di socializzazione, in cui poter imparare a “fare gruppo”, a essere collaborativi e non competitivi, a gestire i conflitti; in cui possano imparare a contattare le proprie e le altrui emozioni, positive e negative e a riconoscerle, tutte, come legittime.
Insomma spero che le scuole possano diventare luoghi dove s’impari sì a “leggere, scrivere e a far di conto”, ma soprattutto dove s’impari a VIVERE!  



giovedì 14 luglio 2011

EDUCAZIONE "Gentile"

è ciò che mi è venuto in mente quando ho deciso di creare un blog per dare sfogo al mio desiderio di dire ciò che penso, sento, desidero, riguardo a un argomento che mi sta a cuore. Mi occupo dei cosiddetti bambini e ragazzi "difficili", a scuola e nei loro domicili. Mi accorgo sempre di più di quanto i bambini abbiano bisogno di sentirsi "amati" anche quando ricevono un rimprovero. Ho messo "amati" tra le virgolette perchè l'accezione che si dà spesso, se non sempre, a questa parola è: "vezzeggiati", "coccolati" e il comportamento amorevole è identificato col permissivismo. 
Ritengo che il detto "Il bastone e la carota" abbia un germe di verità che va però fatto crescere. Nell'accezione usuale del detto, la carota rappresenta tutto ciò che si concede all'altro, in questo caso al bambino/a o ragazzo/a, mentre il bastone è ciò che si proibisce e ciò che si impone in modo coercitivo.

Esiste un nuovo metodo di addestramento per cani che si contrappone al metodo tradizionale. 
Il titolo di un libro che illustra questo addestramento innovativo è:
"Guida pratica all'educazione gentile del cane. Un nuovo metodo per educare con dolcezza il nostro cane".
La descrizione di questo libro recita: "Risulta a tutti naturale e spontaneo individuare nel proprio cane comportamenti sgraditi e cercare di evitare che si ripetano sgridandolo. Naturale non è però sinonimo di efficace: spesso non si ottiene alcun risultato concreto perchè non si conoscono alternative valide. I nuovi metodi di educazione dolce favoriscono buoni risultati in modo efficace, veloce e piacevole per cane e padrone, insegnando a premiare i comportamenti graditi piuttosto che punire gli involontari errori commessi dall'amico a quattro zampe. Il manuale insegna a tutti ad appropriarsi di queste tecniche innovative.

Se il migliore amico dell'uomo impara di più e meglio dall'Educazione Gentile, ci riuscirà pure il figlio dell'Homo Sapiens!!!
        
Possiamo concludere che la "carota" può essere usata sia come rinforzo negativo, semplicemente togliendola al bambino, al ragazzo e finanche all'adulto con la Sindrome di Peter Pan, che positivo, dandola a rinforzo dei comportamenti funzionali. 
E il "bastone"?
Possiamo darlo a un anziano affichè sostenga i suoi passi oppure lo possiamo gettare al fuoco!

Voglio una scuola che insegni a voler vivere felici insieme agli altri!

Sufficiente, buono, ottimo, 6/10, 8/10, 10 e lode! E’ davvero questo che vogliamo dalla scuola, una sequela di numeri da appioppare a un’altra serie di soggetti che devono imparare da insegnanti che impartiscono istruzioni?
Oggi la scuola, nonostante faccia posto a progetti tenuti da psicologi, in cui si parla di emozioni, aspettative, comunicazione, in vari gradi e modalità, è ancora molto legata alla performance dell’alunno, in funzione dei programmi da svolgere e al livello d'istruzione che ad una certa età bisogna raggiungere.
Insomma, la scuola è immersa nella natura narcisistica della nostra società, sempre più attenta all'ottimale performance individuale.
Un'alternativa potrebbe essere quella di iniziare a considerare la classe come un gruppo di persone con diverse peculiarità espressive e cognitive e pensare a instaurare un clima di collaborazione tra gli individui.
La conflittualità che spesso si trova nelle classi è causata dall’alta competitività dei discenti, che fanno a gara per compiacere la maestra, nel darle per primi una penna rossa che chiede in prestito, oppure nel fare i compiti e le verifiche meglio degli altri. In queste classi si assiste alla formazione di gruppetti in cui c’è solidarietà nella lotta contro gli altri. Si forma il “noi” del gruppetto, ma non il “noi” della classe, che sarebbe foriera del “noi” della comunità di appartenenza e poi della società in senso lato.
È in questo clima competitivo che si attuano progetti scolastici che vogliono insegnare “La solidarietà”, “Il rispetto delle regole”, “Il senso civico” ecc.
Premettendo che questi progetti sono molto interessanti e spesso ben fatti, il risultato è che rimangono delle “oasi d’insegnamento” che sono destinate a rimanere isolate, nel deserto della fretta e della fredda corsa allo svolgimento del Programma Ministeriale.

La solidarietà è essenziale in una società:
come si può parlare di solidarietà nel progetto “Aiutiamo il Burundi” e poi non essere in grado di insegnare a un bambino come ascoltare il compagno di banco con cui sta litigando. La solidarietà quindi, si limita all’elargizione di somme di danaro, senza avere una coscienza intima di cosa sia aiutare l’altro, comprendendolo, prima di tutto.

Il rispetto delle regole è altrettanto importante nella vita quotidiana della classe, ma anche nella vita in generale. È importante dunque mediare le regole in modo che non siano percepite come coercitive e foriere di privazioni, piuttosto come possibilità che ognuno ha di esprimere la propria libertà. Utile a questo scopo potrebbe essere un lavoro volto all' interiorizzazione delle regole attraverso delle drammatizzazioni, che facciano vivere la situazione al bambino, oppure attraverso discussioni, se siamo davanti a individui più grandi. Purtroppo le regole vengono mediate come imposizioni, perché sono da sempre vissute come tali dagli stessi insegnanti.

Il senso civico:
nei corridoi delle scuole spesso si assiste alla scena del cappotto per terra che viene calpestato da tutti i bambini che passeggiano durante la ricreazione o che si trovano a passare da lì. Alla domanda dell’insegnante: “Perché non lo raccogli?”, c’è l’ovvia risposta: “Non è mio!”.
La stessa cosa accade se per terra c’è una penna, un quaderno, uno zaino, un pezzo di carta ecc.
Come si pretende di vedere un bambino raccogliere un cartoccio di carta non suo, se è stato abituato a lavorare da solo, per conto suo, pensando alla propria performance, senza mai aver sperimentato la collaborazione nell’apprendimento e nei vari contesti che vive?

Tornando alla natura narcisistica della nostra società, in cui la scuola è immersa e sommersa, vediamo bambini e adolescenti oberati d’impegni: calcio, pianoforte, danza, basket, insomma tutte attività in cui la performance individuale viene premiata. Anche negli sport di squadra c’è una focalizzazione nella performance individuale, a scapito di quella di gruppo.

Dunque, la scuola non è certo la causa della natura narcisistica della nostra società, ma potrebbe essere un luogo in cui si rimette in discussione questa natura, andando a contrastare le tendenze ad isolare il corpo dalla mente. Per corpo non intendo certamente il “fisico”, ma “corpo” come “luogo” in cui si esprimono i bisogni e i desideri naturali dell’essere umano, pensante e senziente: “corpo” come interfaccia tra me e l’altro, al quale posso esprimere la mia intimità.

Pensiamo, dunque, a fare stare i nostri bambini e adolescenti l’uno davanti all’altro, guardandosi, ascoltandosi, capendosi, aiutandosi nella gestione dei conflitti e nel bisogno/desiderio di comunicare agli altri la loro voglia di vivere insieme, una vita felice.

C’è un solo problema:
affinché i bambini e gli adolescenti imparino a stare l’uno davanti all’altro, esprimendo reciprocamente i propri bisogni e sentimenti, è necessario che noi adulti iniziamo a farlo per primi!